AppassioDante – n. 2

La ferita soave della carità

 

La ferita soave della carità
Prof.ssa Francesca Favaro

Docente di Lettere al Liceo “Tito Livio” di Padova  e Vicedirettore del Centro di Ricerca “Lo Stilo di Fileta”

«Regnum celorum vïolenza pate»[1] afferma l’aquila formata dagli spiriti giusti che muove le sue ali di luce, davanti al pellegrino Dante, nell’argenteo splendore gioviano. Una memoria evangelica,[2] formulata con citazione in latino, si fonde al latinismo «pate» (adattamento dal verbo deponente patior, ossia soffrire, ma anche tollerare) e al volgare del sì per esprimere grazie all’incrocio degli idiomi ciò che risulta ineffabile e sfuggente alla logica e all’umana comprensione: il cedere della volontà di Dio, talvolta, ai Suoi figli.

Se l’occhio dell’aquila ha per pupilla «il cantor de lo Spirito Santo»,[3] ossia il re Davide, riguardo alla cui eterna felicità non c’è di che sorprendersi, la luminosa costellazione che dell’aquila costituisce il ciglio annovera invece due anime – la prima e la quinta, in una sorta di rispondenza circolare – che non possono non stupire, poste fra i beati: si tratta infatti dell’imperatore Traiano e di Rifeo, personaggio del poema di Virgilio e compagno di Enea,[4] pagani entrambi.

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